La Corte di appello di Milano conferma quattro mesi di reclusione a T.D.A.M. per aver esercitato abusivamente la professione di psicoterapeuta senza aver mai conseguito una laurea e la specializzazione in psicoterapia né essere iscritta all’Ordine degli Psicologi o dei Medici. Vediamo nel dettaglio i fatti e le motivazioni.
La figlia minorenne di un medico, in seguito a “problematiche familiari”, iniziò a svolgere incontri settimanali con una “psicoanalista freudiana” su indicazione della madre e con il consenso del padre. Gli incontri proseguirono per due anni fino a quando la sedicente psicoanalista telefonò al medico per consigliargli di non partecipare alla Prima Comunione della bambina perché la stessa “non sarebbe stata pronta per rivederlo”.
A questo punto , notando tra l’altro che la piccola non stava per nulla migliorando, al medico sorsero dei sospetti e, come in un film thriller che si rispetti, iniziò delle indagini sulla psicoanalista.
Dalle sue indagini scoprì che la psicoanalista era titolare di partita IVA come “assistente sociale non residenziale”, era laureata in lettere e filosofia ed effettuava la psicoanalisi freudiana con il metodo dell’ascolto e del colloquio. In tutto questo non c’era traccia di iscrizione a qualche albo professionale (medici o psicologi).
Così prende avvio il processo per abuso di professione in cui la psicoanalista verrà condannata a 4 mesi di reclusione. La cosa più interessante di tutta la vicenda è il ricorso alla Cassazione che con la sentenza n. 13556/2020 ha confermato la colpa.
Una persona può definirsi professionalmente in tanti modi, in questo caso l’imputata si definiva “psicoanalista”, ma va anche bene counselor, filosofo o qualche nome di fantasia. Darsi un nome, però, non vuol dire che non si faccia psicoterapia.
Infatti, la sentenza afferma che “irrilevante essendo la circostanza che, nel caso in esame, il soggetto agente non si presentasse come psicoterapeuta, bensì come psicoanalista, perché di fatto, ne svolgeva l’attività, secondo un proprio ciclo e ordine di sedute”.
Ancora più interessante è il ragionamento successivo che si ritrova nella sentenza.
La sedicente psicoanalista “nel momento in cui testimonia, anche nel negare che la piccola fosse affetta dalla sindrome in discorso, si arroga di compiere una diagnosi al negativo, che a lei comunque non spetta, perché essendosi presentata come analista della bambina, non ha espresso solo una opinione (secondo me), ma un responso”.
Inoltre, nel tentativo di difendersi affermando che la psicoanalisi è “per definizione attività di osservazione non di somministrazione di cure e terapie”, ottiene come risposta che non è importante la teoria di cosa è o non è la psicoanalisi, ma quanto effettivamente svolto dall’imputata.
A questo punto siamo di fronte a una semplice deduzione dei giudici che mettendo assieme i vari pezzi, giungono alla conclusione che l’imputata stava svolgendo psicoterapia.
Il fatto che il Tribunale per i Minorenni avesse decretato che la bambina doveva essere avviata a un percorso terapeutico e che la madre scelse la psicoanalista non è stato dirimente per individuare l’esercizio abusivo della professione, ma solo una conferma di quanto era già stato recepito.
Ancora una volta si trae insegnamento dal buon senso dei giudici che poco sanno di professione dello psicologo.
Sappiamo bene che la mera “osservazione” o “il solo ascolto” non può esistere in un rapporto professionale, perché se la richiesta è psicologica qualsiasi azione non materiale o spirituale, strutturata in ciclo di incontri ordinati (come ben esplicitato dalla sentenza), anche se teoricamente non prescrittiva e di sola “osservazione”, ricade nell’ambito dell’intervento psicologico.
Chi, a fronte di una richiesta di colloquio per motivi non materiali o spirituali, può mai “osservare” o “ascoltare” un cliente in un rapporto professionale di più incontri senza che questo influenzi psicologicamente il cliente stesso, configurando così un intervento psicologico?
Non a caso i giudici ci tengono a sottolineare che sono giunti alle loro conclusioni “non potendosi formulare valutazioni meramente astratte, ma dovendosi valorizzare gli elementi dai quali i giudici di merito hanno in concreto dedotto il tipo trattamento in concreto somministrato dalla ricorrente”.
In poche parole, abbandonando le disquisizioni teoriche e retoriche, chi non è psicologo e si professa di dare un supporto non materiale o spirituale al proprio cliente nella pratica cosa fa? Forse lo abbiamo visto nei filmati di alcuni counselor non psicologi scelti a caso.
Nel campo della professione di psicologo si evidenziano soltanto due figure. Psicologo e psicoterapeuta non altro. Credo che bisogna stabilire dei confini netti In questa professione molto abusata. Chiarire e valutarne le differenze fra le due figure e successivamente anche escludere, tutte le aktre