La psicologia è diventata a tutti gli effetti una professione sanitaria, come sancito dalla legge 3/18. Il testo stabilisce che la vigilanza sulla professione di psicologo passi dal Ministero della Giustizia al Ministero della Salute e introduce la psicologia nell’elenco delle professioni sanitarie.
Applausi, grandi ringraziamenti del Presidente Nazionale degli Psicologi. Alcuni parlano di “evento simbolico”, altri di “passo fondamentale”. Ciliegina sulla torta è il Presidente della Lombardia nella sua lettera a tutti gli iscritti di inizio anno afferma che “questo fondamentale passaggio normativo vedrà impegnato il Consiglio in una sua approfondita valutazione” (per la cronaca, a oggi in Consiglio nulla si è visto e nulla si è saputo, ma in Lombardia è normale amministrazione).
Per quale motivo, ad oggi, nessuno ci ha ancora descritto cosa cambia realmente nella professione?Probabilmente quando tutto sarà deciso in altre sedi (Ministero), allora forse potremmo spendere i soldi degli iscritti per discutere di cosa è già stato deciso da altri non psicologi. Ecco a voi, la politica professionale del senno di poi.
La completa “sanitarizzazione” della psicologia è un obiettivo che è stato perseguito dal 1989 (sì, il mondo era era molto diverso, diviso in due). Oggi è cambiato il mondo e la società, ed è cambiata la psicologia.
Gli interventi psicologici non strettamente sanitari si concentrano anche sul versante del “sostegno” e del “counseling”, ad esempio per affrontare disagio passeggero o anche solo per aver maggior consapevolezza della scelta da intraprendere.
Inoltre, gli ambiti della psicologia tutelati dalla legge sono molto più ampi, ad esempio una famosa sentenza ha decretato che l’analisi della personalità applicata in un contesto di selezione/valutazione del personale lavorativo è un atto che può svolgere solo lo psicologo. Questo perché, pur non essendo un’attività sanitaria, anche in questo ambito si decide del lavoro e della vita della persona, ovvero della salute intesa come benessere bio-psico-sociale.
Gli aspetti puramente sanitari rimangono importanti per la psicologia, ma ridurre la psicologia solo a questi risulta anacronistico.
L’inserimento della psicologia come professione sanitaria porterà con sé sicuramente dei vantaggi come un pieno riconoscimento della professione all’interno del Ministero della Salute, che si traduce nel poterci sedere con diritto ai tavoli decisionali che regolano questo ambito.
L’apostrofare il passaggio a piena professione sanitaria come “fondamentale” riporta a una visione della psicologia rinchiusa in un ambito ristretto e non allineato con la società contemporanea. È questo il messaggio che passa.
Come ci indicano le ultime ricerche, viviamo in una società in cui le persone vogliono rivolgersi allo psicologo per affrontare i cambiamenti e i momenti di crisi, pur in assenza di una psicopatologia. A queste richieste la psicologia ha già pronte delle risposte con metodi e tecniche proprie, anche se spesso sono prese da altri che si definiscono “nuove professioni” dandosi nomi inglesi.
Quando il nostro presidente nazionale appella con “cari colleghi” i “counselor”, ci giunge la consapevolezza che siamo di fronte a una visione limitata della psicologia che la relega al solo comparto sanitario.
Quindi, seppur diventare a tutti gli effetti “professione sanitaria” porta sicuramente un vantaggio per il lavoro in questo ambito, dall’altra parte si dimentica tutta una parte della professione che, pur essendo promettente e di interesse per il cittadino, non risulta compresa, quasi non avesse lo stesso valore.
Purtroppo, mentre la psicologia e il lavoro quotidiano degli psicologi sono maturi e pronti per affrontare la società contemporanea, non lo sembrano altrettanto le nostre istituzioni, che gioiscono per un traguardo che arriva con vent’anni di ritardo, e intanto sono vent’anni indietro su tutto quello che sanitario non è.